L’opera di Greco ci sembra come un racconto, la guardi e inizia a parlare, a raccontare. Racconta di suoni, immagini, volti, sensazioni che si muovono tra le pieghe di una memoria personale senza tempo.
In quello spazio si concentrano le emozioni e le radici di chi la crea; è uno spazio privato ed intimo nel quale si viene accompagnati per gradi attraverso orizzonti di senso quasi impercettibili.
La storia che Giulio Greco ci racconta è la storia di una cammino che svela le origini attraverso i frammenti di un tempo passato.
Da questi “lembi di memoria” riaffiorano immagini, attimi di un umano sentire, recuperati e impressi su brandelli di juta, applicati su tavola con tecniche differenti.
E’ proprio la juta, materiale povero e fedele, quello prediletto dall’artista, testimone di una realtà agreste tipica del Cilento, terra natia di Greco.
Una terra profumata e calda che ci viene restituita dai colori forti e avvolgenti che caratterizzano le opere.
I protagonisti di questa storia sono crocefissi in processione verso un futuro che non si è ancora fatto domanda, scortati da un dolore silenzioso che s’incammina lungo le misteriose vie dell’ignoto.
Sono, forse, le stesse croci che il giovane artista guardava sfilare pervaso da un senso di costrizione ormai svanito.
Sono case, che sono state gabbie, nelle quali abbiamo imparato il desiderio di volare, affacciati al davanzale del nostro destino.
Sono le case che abbiamo abbandonato, come si abbandonano le fragili certezze dell’età acerba, per tentennare tra gli appigli incerti di un futuro che non ci appartiene.
Sono i luoghi nei quali torniamo per proclamare il trionfo o consolare la resa. Una casa onirica da cui tutto proviene e a cui tutto torna. E’ il luogo della memoria che ci appartiene, che ci racconta e si racconta discreta, tra gli accadimenti di un’esistenza.
Sono radici che affondano nell’arte per assicurarsi un brandello d’eternità in un divenire caotico che trascina, inesorabile, le nostre esistenze nell’alcova dell’oblio.
Vincenzo Nobile, 2016.